In principio sono le categorie primarie oppositive, germinali, che proliferano in altrettanti conflitti creativi: la coppia antagonista aperto/chiuso, dentro/fuori, pieno/vuoto è qui tradotta in immagine di sintesi come figura/spazio, dove la figura è compenetrata dallo spazio, ricomponendo l’originaria dialettica in termini dinamici, quale vuoto agito dal pieno.
Il vuoto, l’aperto, lo spazio forniscono all’immagine la materia prima attraverso cui consistere: la luce, che disegna, forma, plasma. L’opera è anche scultura di luce. Lungo il perimetro interno, che ne delimita il campo visibile, dove la luce si addensa la figura si sgrana, perde consistenza; dove la luce diradandosi si distende, la figura si compatta, si rassoda, si fa scultura: la luce scorre lungo i contorni della forma, ne ripercorre il disegno, ne rasenta i bordi, lambisce le sponde, accarezza gli argini dell’immagine, modulandone le curve, ammorbidendone i profili. È la stessa luce che si adagia sulla superficie, ne addensa l’immagine in un mistero luminoso che si effonde ed incontra altra luce. Si direbbe un’intelligenza tattile: tattilità dell’occhio che ripercorrendo quell’itinerario luminoso ripercorre la mano che per prima lo ha inventato.
Ma è questo solo un aspetto dell’immagine, quello derivato dal chiuso, dal di-dentro, dal pieno, dalla figura. Dall’aperto, dal vuoto, dallo spazio, dal di-fuori si completa l’immagine dentro il cerchio. Uno sfondamento che si risolve in definizione plastica, in modellato naturale: è ancora dalla luce che discendono, ad un tempo, la nettezza del disegno, la salda volumetria della forma e la sua dispersione, la sua evanescenza. È la stessa intelligenza visiva: sensibilità della mano che pare poter toccare quell’immagine inconsistente rivivendo il pensiero di quello sguardo che per primo l’ha pensata.
Dentro il cerchio ci sono la forma, la figura, il di-dentro dell’immagine: la sua forma polita, superficie spianata, lisciata, glabra che riluce. La figura riconoscibile: una testa di donna, qualcosa che la rassomiglia o la ritrae, e che è ora attraversata ora posseduta dalla luce e dallo spazio e dal tempo: dal di-fuori dell’immagine.
È questo, in concreto, nel suo contesto di ubicazione, quello per il quale l’opera è stata pensata e creata, il paesaggio di alte montagne, le Alpi, viste da Innsbruch, la sua luce aurorale, meridiana, post-meridiana, serotina, solare o lunare, offuscata da vento o da nebbia, filtrata da nube o da stormo o da fronda, riflessa da sasso o da acqua, la sua mutevolezza, mobilità, l’inafferrabile trapassare del tempo che scorre e scorrendo tracima le ore, i minuti e i giorni, restituendoli dentro il cerchio in immagine che cambia, muta, si trasforma rinsaldando, dal punto di vista della forma, quel conflitto apparente di vuoto e di pieno, di dentro e di fuori, di figura e di spazio da cui l’opera ha tratto origine.
La materia costitutiva dell’opera si accresce, dunque, oltre la luce ed il tempo. L’opera che è anche scultura di luce, è anche scultura del tempo. L’opera-finestra lascia intravedere il mondo, chiusa-in-sé è spiraglio attraverso il quale spiare il movimento irregolare del tempo della vita. L’opera-apertura diviene altro-da sé, scontando sulla propria pelle il trascorrere di quel tempo: il bronzo cangia tonalità, ne assume i colori, le variazioni luministiche, ne assorbe l’atmosfera, la sua superficie specchiante vi riflette il cielo e vi comprime il paesaggio naturale, opaca vi spegne la luce mutevole delle ore. È gioco ripetuto di dare e ricevere, il moto circolare sotteso alla vita tradotto in immagine: la figura dentro il cerchio, la vita in sé dentro l’altro da sé, il dilemma irrisolto di ciò che contiene e/o è contenuto.
Il linguaggio plastico dell’opera denota un magistero sapiente e rigoroso. Accanto alla ricerca di una salda definizione formale, nella purezza del modellato su cui è come inciso il disegno dei volumi che si distendono in prevalenza in larghe superfici spianate, dove la luce si spalma in morbide modulazioni, si rilevano più intense e contrastate vibrazioni luministiche agevolate, favorite, ricavate nel quarto di cerchio lavorato come a punzone. Questa frazione d’arco accoglie e respinge la luce in cavità ritmiche che ora si addensano, ora si diradano in solchi paralleli.
Lo stile lineare prevalente assottiglia il confine tra scultura e pittura. Al tempo stesso la sua forma aperta contribuisce a dilatare i limiti della sua percezione nel rapporto con lo spazio naturale circostante. L’opera è opera dialogante.
Le componenti culturali dell’opera sono molteplici e di diverso segno. Si scorgono rifusi nell’attualità dell’opera tradizione simbolista ed umori modernisti, con un recondito principio razionalista che dall’archeologia rinascimentale risale all’arte antica: vi risuona l’eco lontana della lunga tradizione classicista, nel rigore del segno, nella ricerca di un principio euritmico di equilibrio, che spinge a risalire indietro, nella ricerca di coordinate figurative di riferimento, fino all’immagine dell’arte greca arcaica, per via di quella semplificazione purista dell’immagine. Componenti rifuse, si diceva, nell’attualità dell’opera, vale a dire in istallazione, in inedito evento performativo di “cosa” apparentemente inerte che è immagine, divenire, arte in rapporto con la vita.
Il soggetto riconoscibile è una figura femminile, tema prevalente nella ricerca artistica dell’autore. Moto d’inizio e suo ritorno. Motivo formale, espressivo, attraverso cui indagare le limitate possibilità di riuscita di una bellezza fuori portata, ideale, superiore, sganciata dal dato temporale, empito di un’immagine naturale proiettata in una dimensione sovra-naturale, che è tensione ineffabile verso un indicibile stato di grazia. Quindi, una figura femminile entro un cerchio aperto sull’ambiente esterno.
L’opera-figura per la natura della sua composizione formale, a causa dell’organizzazione stessa del suo telaio prospettico, dialoga con il mutevole spazio circostante. Lo spazio vitale circostante irrompendo nel campo della figura, si fa figura esso stesso. La vita stessa che qualifica lo spazio circostante accede per tale via nello spazio dell’arte. Il tempo dell’una trasborda nell’altra: si fa luce che plasma la forma, ombra che le dà rilievo, colore che le imprime variazione e movimento. Eppure, il mondo non intacca il nocciolo della figura, la sfiora semmai, non ne forza l’accesso più intimo, ne è ospitato. Filtrando il mondo di fuori l’anima della figura lo piega alle esigenze della sua chiusa armonia: lo accoglie molteplice e vibrato e lo rende unitario e pacificato, lo riceve imponderabile e mutevole e lo restituisce concreto e stabile. Ancora di più, il tempo della vita disloca nello spazio dell’arte ciò che è caduco e transeunte, aspira a farsi invitto ed eterno. È insomma questa la risoluzione, la composizione di una ancestrale dialettica. La “figura dentro al cerchio”, ovvero la grana della vita.
Enna, 15 novembre 2013 Paolo Russo, Storico dell’Arte
Riparo trovo nell’incanto aperto
allo stupore. Nelle tue braccia
ora accoglienti, mi sussurri ancora
amore, vita. Sciolta la fatica
soavemente al richiamo inatteso
eppur sperato d’un novello vento
amico, volto ai lacci già le spalle
del tuo agire sopra passi antichi
e sugli affetti a me più dolci e cari.
Dike ha brandito il ferro e lentamente
porgo lo sguardo alla bilancia. Infatti,
non sei più tu, Medea, o la paura
ad oscurare quella sola luce
che mi consola in verità e speranza.
Rita Chiusa
Mario Termini nasce ad Asmara in Eritrea, nel 1943, frequenta l’Istituto d’Arte di Palermo, dove si diploma e successivamente insegna materie artistiche nelle scuole ed Istituti di Enna. Il suo amore per l’arte si manifesta fin da ragazzino. Infatti, all’età di sette anni si cimenta nella realizzazione di vari disegni.
Il primo ad accorgersi di tale attitudine fu il suo maestro di scuola elementare, supplente per una sola settimana, che lo esortò ad avvicinarsi al mondo dell’arte.
Il percorso artistico dell’autore iniziò in maniera del tutto naturale. Gradualmente, la pittura, ed in particolare la scultura, entrarono a far parte dello sviluppo della sua personalità, tanto da suscitargli un interesse sempre più intenso e l’esigenza di realizzare opere che rappresentassero la sua identità e i suoi stati d’animo.
Mario Termini racconta la propria storia e trasfonde se stesso in ogni sua creazione, sentendosi così completo e soddisfatto, senza perdere mai l’ispirazione. Per lui l’arte è vita, è altruismo ed evoluzione, è la possibilità di rappresentare quello che sente.
Il maestro ospita spesso a casa sua gli allievi, quale insegnante generoso e persona di compagnia, che ama offrire ciò che ha, senza esitazione.
Socievole, frequenta diversi ambienti artistici, che lo stimolano ad una crescita dal punto di vista artistico e personale. Dinamico e curioso, ama viaggiare. In Italia, ha vissuto una magica esperienza a Cortina, rapportandosi con grandi artisti e realizzando lì opere sul ghiaccio.
In Europa, ha lavorato in Francia, Austria, Irlanda, Russia e Finlandia. In questi ultimi due luoghi, di particolare suggestione per lui, è stato apprezzato, come artista di talento ed anche come italiano, figlio di una patria che incarna tutti i valori artistici e culturali.
Ad oggi, Mario Termini ha realizzato più di 7000 opere e 70 monumenti, che si trovano sparsi nelle chiese e nelle piazze di tutto il mondo, utilizzando molti ed eterogenei materiali.
E’ passato dalla creazione di opere astratte ed informali ad un’arte figurativa – narrativa, che non solo gli permette di esprimere il sentimento umano nel migliore dei modi, ma anche di raccontare storie, in uno stile sublimato nell’idealizzazione visionaria del proprio mondo emotivo.
L’arte – sostiene – è in continua evoluzione in base ai tempi, alla politica, agli stati d’animo, alle atmosfere e ai vari modi di esprimersi. Auspica che almeno la riconoscenza e la gratitudine nei confronti degli artisti, nello specifico di quelli più anziani, possano essere sentimenti immutabili da parte delle nuove generazioni, così come il riconoscimento, da parte delle Istituzioni, soprattutto locali, per l’opera prestata alla Bellezza, in favore della comunità. Spera, inoltre, che i giovani possano attribuire il giusto valore all’arte, paventando che essi preferiscano la tecnologia alla concretezza di opere d’arte, che l’Italia vanta, invidiata in tutto il mondo.
Caratteristica fondamentale di Mario Termini è quella di rappresentare la figura femminile, affascinato dalla sua naturale capacità di generare, emulandola l’artista, invece, con la sua tecnica e la capacità creativa.
Inoltre, ha prestato particolare attenzione al tema delle Lumache, che gli è caro. Le Lumache rappresentano l’evoluzione, il cambiamento, la metamorfosi, che ogni individuo affronta nel corso della vita. La realizzazione di queste opere ha aiutato l’artista in un periodo specifico della vita, ravvisando egli nell’arte una funzione salvifica per la sua esistenza.
Mario Termini ha avuto occasione di promuovere l’arte della scultura nella Galleria D’Arte Triskelion, in cui ha tenuto dei corsi, dando dimostrazione pratica e diretta della sua attività e soprattutto del modo di trasmettere il proprio talento e l’amore verso l’arte.
Le Tirocinanti: Morgana Sole e Federica Calcagno
Ho iniziato a bere, ho bevuto la tua acqua per anni, giorno dopo giorno, dissetandomi. A volte torbida a volte trasparente ma essa mi dissetava sempre Con la neve e con il sole, di giorno e di notte Quanta acqua ho bevuto alla tua sorgente. Quanto ancora dovrò bere di questa limpida acqua o torbida che sia, questo non so. Quello che so che mi dà forza, mi dà volontà, voglia di vivere e di fare di creare sempre opere che mi soddisfino la mente l’animo ed il corpo.
Voglio ancora bere alla tua fontana perché ho bisogno di dissetarmi, ho sete sempre sete, grazie sorgente.
“Artista bizantino, produttore di Icone non nella sintesi formale, s’intende, ma nell’insieme dei significati che l’opera sottende. Lui, l’Altro, la manifestazione per mezzo dell’angelo, la materia, la donna: di creta, di bronzo, di radica o di tronco, sintesi dinamica e ieratica che si stacca dalla fisicità degli oggetti, si torce, si eleva, cerca spazio nell’aria circostante, lo trova nella dimensione di cose visibili e incantate.”
Vittorio Ugo Vicari, Storico dell’Arte.
“Gli amici veri sono come i grandi alberi nel bosco. Crescono impercettibilmente nel tempo, parlano ed ascoltano solo nel vento. Conosco Mario Termini da quando avevo undici anni, dalla prima media; era il mio professore di Educazione Artistica. Più tardi, nell’adolescenza è stato mio maestro d’arte. Ancora più tardi nell’età matura, mio mentore. Tutte le parole che ho scritto all’indirizzo della sua opera scultorea sono intrise di quella rara essenza che è l’amicizia la quale come tra gli alberi soffia, ora lieve ora impetuosa sempre e comunque costante.
Vengono giorni in cui la malattia ci scuote di dentro ed il camminare si fa subito incerto, come sul bagnato. Giorni d’attesa, fatali in ogni caso, sempre. Tutto sembra paralizzato dai ricordi per un verso, dall’incertezza futura per l’altro. E sono proprio i ricordi a soccorrerci mentre ci muoviamo sanguinolenti senza una meta, un luogo dove riparare in fretta prima che ritornino i marosi.
Ecco, la parola rimane accostata, e mai prima d’allora ti accorgesti di quanta cura abbisognava la casa: le pareti ingialliscono, le imposte si piegano di lato e tutto, proprio tutto esige la tua presenza, la mano attenta e premurosa di chi sa trattarsi di proprie ossa, denti, pelle, destino.
Così scrivo, quando vorrei vederti e poter essere ancora un poco allievo, come quando mi imbiancavo d’inverno nel laboratorio di casa tua alle prese di resine e gesso.
Ogni volta che una persona mi volta le spalle e mi tradisce, penso che c’è gente come te che mi ha visto crescere cercando di insegnarmi qualcosa. Che non esitò sulla soglia ma volle entrare, ed ora siede fra le mie cose. Un amico non un censore. Ora che hai più capelli bianchi in testa, le tue parole, che solo per me ebbero senso, mi confortano ancora quando la solitudine – non di gente si intende, ma di idee – mi prende.
Oggi son più adulto. Di te diranno che ti sei invecchiato, e ognuno guarderà irridente il nostro intenderci all’istante; questo nostro cercarci di tanto in tanto come vecchi compagni di avventure mai vissute insieme.
E’ il destino dell’angelo che ci rende soli. Pure felici talvolta, ma profondamente inquieti; come quel Don Chisciotte – magnifico Cervantes – con picca e ronzinante, scagliatosi all’attacco dei mulini a vento, unici testimoni di un’indicibile presenza. Sono felice della nostra amicizia. ” Da “Le grazie di uno sguardo”
[…] Altro aspetto che mi preme sottolineare, in questo breve contributo, è il fatto che Mario Termini ha una carriera di scultore per se stesso, indubbiamente come molti; ma soprattutto è espressione di una attenzione continuativa nel tempo per l’arte pubblica monumentale. Il dato non è indifferente: esso chiama in causa la responsabilità civile dell’artista e s’incardina in una significativa tradizione italiana che dal Rinascimento in avanti ha improntato l’urbanistica e l’estetica della città.
Il centro del consesso sociale è, nella lezione umanistica, la piazza, la fontana, l’acqua ed il complesso di immagini simboliche, storiche che vi gravitano attorno, rese manifeste dal monumento in bronzo, in pietra, etc. Un retaggio classico greco e romano che si riafferma in Italia e nel mondo come statuto civile, sentimentale (nel senso patrio del termine) e politico.
Sempre nell’ambito dell’arte pubblica monumentale, negli ultimi anni Termini ha percorso vie internazionali, affermando la sua opera in diversi simposi: a Penza (Russia nel 2011 e 2012), ad Uzerche (Francia) nel 2011; a Saariselka (Finlandia) nel 2014 e nel 2017. Le sculture che ne derivano si staccano dagli affanni della vita quotidiana e, così lontani da casa, assumono un respiro che l’autore ritroverà, nella sua terra natale, solo nelle prove più recenti.
Mi piace segnalare due legni di grande respiro, integralmente nordici per materia ed espressione: due cariatidi che egli scolpisce in Lapponia. In esse si incarnano l’epica e la favolistica popolare scandinavi, con il loro problema di fate, elfi, divinità sub polari dal candore boreale.
Nella produzione più recente, dicevamo, tutto tende verso l’alto e la materia rischiara; ricominciare, raggiungere il confine, trasformare sono le parole d’ordine degli ultimi anni. La lumaca ha raggiunto il suo scopo alchemico: con un grande saluto al passato può ora volgere gli occhi verso le nuvole, nelle grazie di uno sguardo femminile, verso il divino.
Vittorio Ugo Vicari, Storico dell’Arte
Uno splendido centauro si apre alla nostra vista, quale scultura magistrale e concettualmente esatta. Soltanto un cavaliere di lunga esperienza avrebbe potuto scolpirlo così: simbiosi tra uomo e cavallo che è, primariamente, nella testa di entrambi.
Vittorio Ugo Vicari, Storico dell’Arte